Credo che da una parte si debba tutti noi lavorare per restituire credibilità sociale all’ospedale e quindi accrescere nei cittadini la percezione di affidabilità e dall’altra si debba investire in un servizio che sarebbe stupido continuare a considerare come la controparte di altri servizi. Come si fa a dire “one health” senza avere intanto una visione unitaria del SSN? One health allora “one service”
21 GIU – Ai numerosi spunti dell’amico Ivan Cavicchi per aprire questo Forum di QS sul futuro degli ospedali alla luce dei finanziamenti del PNRR per la sanità, porto volentieri qui il mio contributo.
Lo shock sanitario, economico e sociale, indotto dalla pandemia, ha mostrato una governance debole, pur tuttavia questo irripetibile scenario offre l’opportunità di compiere, attraverso il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza, scelte coraggiose a condizione che si accetti la vera “sfida al cambiamento” e, in un’ottica di salute globale, quella che la OMS riconosce come “one health”, occorre volontà politica, partecipazione attiva e soprattutto visione del futuro.
Per intanto sfatiamo il concetto secondo il quale la sanità italiana è stata in grado di dare risposte complete ai bisogni dei cittadini durante una questa drammatica fase. Non possiamo nascondercelo: la prevenzione è stata sottovalutata; la frammentazione del territorio, con i suoi modelli incompiuti, ha evidenziato evidenti “sacche” di inefficienze; l’impatto negli ospedali è stato eccessivo e dirompente sia per i cittadini che per i professionisti.
Lo testimonia il lungo blocco delle attività di elezione, il logoramento (parlare di disagio mi sembra fin troppo riduttivo, ormai) di medici ed infermieri spesso lasciati senza supporti o riferimenti, l’elevato rischio di contagio per una approssimativa fornitura di presidi sanitari, le criticità in cui sono stati lasciati pazienti e familiari nel cercare la soluzione più idonea per ottenere risposta ai propri bisogni di salute.
Dovremmo essere capaci di volgere tutto questo verso una vera occasione di cambiamento, da noi indotto anziché subito. Dobbiamo ripensare al nostro SSN con una visione diversa dal passato, ripensare ad un modello di ospedale tecnologicamente sicuro ed avanzato ma aperto al paziente e al territorio, immaginare che l’ospedale sia parte integrante di una filiera dove, a quella esclusiva fase di “input” (il ricovero) tipica di una visione “ospedalocentrica”, faccia seguito anche quella necessaria fase di “output” verso il territorio, certamente favorita delle tecnologie di ultima generazione.
Una filiera che, partendo dal concetto di medicina di prossimità, come prevede la missione 6 del PNRR, parta dal rapporto fiduciario tra MMG e paziente per l’avvio di un percorso assistenziale che può indirizzarsi verso le cronicità o, in alternativa, verso le acuzie – attraverso il ricovero ospedaliero – ma attivando una continuità di costante dialogo tra professionisti (MMG e medico/specialista ospedaliero), magari senza interposizione di stazioni intermedie che rischiano di creare ulteriori apparati burocratici, oggetto di interessi diversificati con evidenti barriere che, di fatto, ostacolerebbero la continuità tra territorio ed ospedale.
Invece il PNRR sul tema sanità appare concepito per non cambiare nulla, anzi innestare una spesa inappropriata e per di più perpetrando gli errori del passato. Senza veli, dovremmo avere il coraggio di realizzare che siamo di fronte a un sistema statico, con una progettualità che è confinata nelle stanze dei soliti noti. Il risultato è doverci confrontare con un PNRR chiaramente sotto finanziato che ha tre chiari obiettivi altrettanto statici: rafforzare, potenziare l’esistente, confermare il DM 70/15.
Ma per una sanità che ha mostrato tutti i propri limiti, le azioni di resilienza e rilancio passano davvero attraverso il rafforzamento degli attuali modelli organizzativi? Davvero si crede che il potenziamento possa essere garantito esclusivamente da tecnologie di avanguardia che, in queste condizioni, non troverebbero neanche una idonea collocazione e implementazione? E la politica di deospedalizzazione voluta dal DM 70/15, con tutte le evidenze negative mostrate dalla pandemia da Covid in termini di offerta sanitaria, davvero è la soluzione al problema?
Innanzitutto, l’ospedale va ripensato così come i suoi modelli organizzativi integrati col territorio, in cui al centro devono essere i medici più che i limiti di spesa e le direzioni amministrative. Mettendo in primo piano le professionalità mediche e le esigenze dei pazienti (piuttosto che la malattia), è necessario creare anche un modello organizzativo meno “ospedalocentrico” e più flessibile che deve essere parte integrante della filiera che cura il malato. In sostanza, oggi gli ospedali si trovano di fronte ad un eccesso di standardizzazione e la standardizzazione ha indotto ad una rigidità del sistema e, quindi, ad una ridotta versatilità delle strutture sanitarie e ad un abbassamento dell’autonomia professionale dei medici.
Il dogma dell’appropriatezza, utilizzato per ridurre i costi, ha ridotto l’offerta sanitaria proprio attraverso tagli al personale ed ai posti letto, mentre il DM 70/15 ha contribuito a “selezionare” l’offerta. Limiti che sono stati messi ampiamente a nudo dalla pandemia e, a tutt’oggi, gli ospedali non riescono ancora a garantire le cure ai malati non covid.
Durante la pandemia si è capito chiaramente come l’ospedale si sia “preso cura” della sola malattia ma non è stato in grado di “curare i malati”, perché la ridotta disponibilità di posti letto, la grave carenza di personale non ha garantito la continuità delle cure ed il blocco degli screening modificherà, in modo sostanziale, l’asset epidemiologico delle malattie, soprattutto quelle cronico-degenerative, con un impatto tale da richiedere un modello di ospedale diverso, flessibile, tecnologicamente avanzato, con percorsi dedicati integrati con il territorio e orientato al malato rispetto alla sua specificità e complessità.
In realtà la centralità del paziente passa proprio attraverso l’insieme di azioni che si realizzano sul territorio e negli ospedali, nell’ambito di una filiera “territorio-ospedale-nuovamente territorio” la cui continuità deve essere garantita dai professionisti. È, pertanto, condivisibile quanto sostiene Cavicchi quando scrive che sarebbe più opportuno parlare di interconnessione tra ospedale e territorio piuttosto che di continuità, perché in tal modo si rende più chiara la visione di cambiamento che passa attraverso una stretta relazione tra i professionisti che “curano i malati” e non attraverso “le malattie” clinicamente standardizzate.
In questa interconnessione tra professionisti (più che tra strutture o tra “malattie”), il punto di riferimento è il medico e non le strutture, tanto che in tale interconnessione dovrebbe essere considerata anche l’ospedalità privata. In generale, si valorizza come fondamentale la figura dello specialista ospedaliero e la stessa necessita, appunto, di interconnessione con il territorio, in cui un ruolo strategico dovrà certamente essere affidato anche alle nuove tecnologie.
Proprio in questa ottica i finanziamenti della Missione 6 possono essere davvero funzionali ai processi innovativi e favorire l’auspicata “interconnessione” MMG-paziente-medico specialista. Occorre, però avere una chiara idea di filiera e di modello di ospedale perché è necessario allocare, nei punti più appropriati della filiera, le varie app, device, strumenti di intelligenza artificiale, che sono stati messi in campo da centinaia di start up e aziende.
È ovvio che negli ospedali il futuro è insito nella radiomica, robottistica, reti neurali, ecc. come il futuro sul territorio sarà certamente supportato dai più moderni device o app; ma questo significa che occorre un serio investimento nella formazione dei professionisti proprio per creare quelle condizioni per le quali l’interconnessione sarà davvero in grado ridurre i tempi di cura e abbatte le attuali barriere burocratiche.
Di contro la mancata volontà di cambiamento riporta all’attuale contesto che vede molti ospedali non ancora in grado, ad esempio, di implementare la cartella clinica informatizzata.
Senza un serio progetto di cambiamento, si rischia solo di disperdere risorse. E di mancare quella urgente inversione di marcia che, poi, potrebbe non essere più fattibile.
Ecco l’insoddisfazione, il disagio e la profonda “stanchezza” degli ospedalieri nasce dal fatto che, oggi, la quotidianità è fatta solo di urgenze, di “rincorse”, di capacità di resilienza del medico a superare barriere organizzative con la percezione di un futuro incerto e poco stimolante dal punto di vista professionale, che trova terreno fertile e conferma ai più alti livelli con un PNRR “ancorato” nel passato e privo di visione.
Condivido, pertanto, l’idea di un tavolo di confronto che, naturalmente, deve avere un approccio molto più ampio perché i nuovi modelli organizzativi, soprattutto quelli ospedalieri, passano anche attraverso nuovi modelli di governance ospedaliera e di rappresentanza. Questo significa anche ricondurre al Ministero della salute la contrattualità dei sanitari, come da tempo sostengo in diverse sedi pubbliche, e di ripensare le direzioni ospedaliere, prevedendo un vero coinvolgimento di professionisti (magari con una figura di amministratore delegato al posto degli onnipotenti direttori generali), pazienti e rappresentanti delle politiche locali. E infine, visto che di investimenti pubblici parliamo, rivedere la destinazione delle risorse in base all’appropriatezza piuttosto che solo al tetto di spesa.
Ma a parte il tavolo di confronto ritengo che sul serio come è stato detto da Cavicchi tra il pnrr e la realtà degli ospedali in particolare ma della sanità in generale esiste un divario politico, organizzativo, lavoristico, culturale che dovremmo colmare, governo e tutti noi.
I divari si colmano con il confronto e cercando insieme le soluzioni necessarie dando spazio a idee di riforma. Di sicuro, soprattutto dopo la pandemia e i dati disastrosi citati con precisione da Cognetti, l’ospedale “minimo” di cui parla Cavicchi non può più essere il futuro ideale di riferimento della politica.
Per cui anche io credo che dovremmo andare oltre il DM 70. L’ospedale è la soluzione a importanti e spesso gravi bisogni di cura e per il futuro esso deve essere ripensato oltre il minimo in tutti i sensi.
Credo che da una parte si debba tutti noi lavorare per restituire credibilità sociale all’ospedale e quindi accrescere nei cittadini la percezione di affidabilità e dall’altra si debba investire in un servizio che sarebbe stupido continuare a considerare come la controparte di altri servizi.
Come si fa a dire “one health” senza avere intanto una visione unitaria del SSN? One health allora “one service”.
Guido Quici
Presidente CIMO-FESMED